Un nuovo esordio per il Festival IT.A.CÀ: il 6 e 7 settembre, infatti, l’unico Festival in Italia sul turismo responsabile e sostenibile debutterà in Friuli Venezia Giulia, dividendo i suoi eventi tra Trieste e Gorizia.
Organizzata da La Collina Cooperativa Sociale, la nuova tappa del Festival ci racconterà la realtà del suo territorio e il suo modo di concepire la Restanza, attraverso le sue buone pratiche di inclusione, di promozione della cittadinanza attiva e di accoglienza. Le identità di Trieste e Gorizia, in particolare, sono fortemente legate a quella che fu definita ‘Rivoluzione Basagliana‘: portata avanti dallo psichiatra Franco Basaglia alla fine degli anni ’80, essa cambiò definitivamente il modo di concepire gli istituti di sanità mentale in Italia e nel mondo, attraverso un approccio più umano e inclusivo nei confronti di chi soffre di malattie mentali.
A parlarci di come la rivoluzione Basagliana attraverserà le attività del Festival e di cosa vedremo in questa due giorni in FVG è Francesca Giglione, coordinatrice della tappa di Trieste e Gorizia, collaboratrice per La Collina e Radio Fragola e studentessa in Diplomazia e Cooperazione Internazionale all’Università degli studi di Trieste.
“Quando mi sono imbattuta ne “La Collina” ho capito che questa cooperativa sociale poteva accogliere nel giusto modo questo Festival. La Collina agisce infatti quotidianamente nel rispetto del contesto e delle realtà con cui opera costruendo reti di relazione tali da rispondere ai bisogni della comunità offrendo opportunità di crescita economica sociale e culturale” ci dice Francesca, che risponde oggi alle nostre domande.
Dopo la cosiddetta ‘Rivoluzione Basagliana’ che cambiò per sempre il modo di concepire i servizi di sanità mentale, Gorizia diventa un’eccezione, un esempio in Italia e nel mondo. In cosa consistono gli itinerari basagliani che proponete per la vostra tappa del Festival?
Giorgio Liuzzi e Arturo Cannarozzo, membri dello staff che si occupa degli itinerari basagliani presso la Cooperativa La Collina, mi raccontano come a Trieste, e in parte anche a Gorizia, c’è stato un processo di “Restanza urbana”: un processo di rigenerazione urbana di quello che una volta era il manicomio, quindi luoghi dove le persone venivano dimenticate dalla città. In qualche modo, con il processo di deistituzionalizzazione, si è cercato di giocare sugli spazi per sviluppare una storia personale. Il Turismo qui è stato scelto come motore di integrazione e scambio di buone prassi per far conoscere quel che è avvenuto.
Il manicomio consisteva nel tentativo, da parte di un’istituzione totale, di annientarti come uomo e come individuo privandoti della libertà e identità personale. Qui Itinerari Basagliani vuole proprio affermare la Resistenza di queste persone, di Franco Basaglia e del suo staff, in una Rivoluzione che consiste proprio nel ridare libertà, dignità e nuova vita.
Gorizia e Trieste sono le prime città del FVG ad abbracciare il concept del turismo responsabile. Quella del turismo responsabile può essere considerata un’altra rivoluzione per questo territorio e perché?
Il territorio del Friuli Venezia Giulia ha già un alto impatto turistico. Un esempio lampante può essere quello dello Slowtourism finanziato dal Programma europeo per la cooperazione transfrontaliera Italia-Slovenia, dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dai Fondi nazionali. Prendendo spunto dalle parole del Professor Moreno Zago (responsabile del gruppo di ricerca di Slowturism, docente di Sociologia del Turismo, Sociologia delle Relazioni Internazionali e Sociologia dei Confini all’Università di Trieste) descriviamo quella che è una nuova filosofia di viaggio realizzata grazie al turismo lento e di qualità: la valorizzazione e promozione di itinerari turistici slow tra l’Italia e la Slovenia.
Ilaria Bastiani, ciclo viaggiatrice e referente della Cooperativa La Collina per le aree dell’isontino, evidenzia anche il valore dello Slow Collio: un itinerario che attraversa zone famose per la produzione vinicola, tramite percorsi ciclo-pedonali promossi da un tipo di turismo responsabile e sostenibile. Nel goriziano i progetti di cooperazione transfrontalieri con la Slovenia, attivi grazie al GECT (Gruppo Europeo di Collaborazione Territoriale), ricoprono una buona parte degli investimenti economici. Per queste ragioni, parlare di rivoluzione dal punto di vista turistico sarebbe errato, poiché è una regione che attrae e vuole attrarre un determinato tipo di turismo.
Confrontando le diverse realtà attive sul territorio emerge come la rivoluzione nell’approcciarsi a questo festival consista in una nuova apertura e riscoperta di noi. Qui capita di vivere il turismo quasi in forma individuale: IT.A.CÀ diventa quindi per noi occasione dove sedersi tutti intorno ad uno stesso tavolo, accomunati dagli stessi valori, riproponendosi in una nuova dimensione nazionale.
Quali necessità del territorio e della sua comunità hanno spinto a creare una tappa del Festival proprio qui e quali benefici sociali ed economici può portare la promozione di un turismo responsabile e sostenibile sul territorio?
Per rispondere a questa domanda ho deciso di incontrare Perazza Franco, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Gorizia e componente dell’Assemblea del GECT.
Franco evidenzia come, una volta venuti a conoscenza di quello che è questo festival, è parso subito interessante parteciparvi, soprattutto per una città e una regione che è sostanzialmente immobile. Gorizia in modo particolare è una città vecchia che ha difficoltà ad immaginarsi un futuro. Fortunatamente, ci sono molti giovani che hanno una spiccata sensibilità per diversi aspetti sociali e ambientali. A questo punto, il festival qui risulta essenziale e di grande valore.
Tutta la regione è una regione di confine. Un tema, quello del confine e del rapporto con gli altri, che determina la sua identità. L’esperienza del GECT mette in forte contatto la popolazione italiana con quella slovena. Un festival che si ispira a questi valori, di vicinanza all’altro, ci è parso subito molto importante, ancor di più se legato a quella che è l’unicità e particolarità della storia basagliana nei due parchi (Parco San Giovanni a Trieste e Parco Basaglia a Gorizia).
I benefici sono sicuramente legati alla possibilità di sviluppare un tipo di cultura e allo stesso tempo favorire una conoscenza del territorio che per alcuni aspetti è sconosciuto perché periferico. La voglia è quella di restituire interesse e potenziale al territorio, smuovendo la comunità (soprattutto goriziana) e facendo l’uscita da questa condizione depressiva di quasi rassegnata decadenza che vive, grazie ad un tipo di turismo niente affatto scontato e portatore di valori con benefici per chi viene ma anche per chi accoglie. Cerchiamo di far emergere una solidarietà politica e sociale diffusa, poiché si tende ancora a polarizzare la regione, con grosse competizioni che creano conflitti.
Il festival qui permettere di valorizzare ogni storia senza sminuirne un’altra. La parola Restanza ci era apparentemente sconosciuta ma, soffermandoci sull’intrinseco significato che essa racchiude, ci rendiamo conto di come forse non saremo abituati a parlarne, ma certamente a viverla! La leggiamo un po’ come la parola chiave o simbolo della rivoluzione che questo territorio ha vissuto e vive: IT.A.CÀ non è ancora arrivata qui ma ci sta già insegnando qualcosa di noi.
Anche in Friuli Venezia Giulia si sta verificando lo spopolamento delle zone montane. Che tipo di “restanza” è possibile proporre per incentivare le comunità montanare a reinvestire sul proprio territorio e su sé stessi?
Per capire quali siano le migliori tipologie di Restanza decido di incontrare Margherita Bono, sociologa di formazione ora coordinatrice del progetto di salute e sviluppo di comunità che agisce nelle micro-aree, sintetizzabile come “Territori in Azione”.
Margherita ci racconta come tutta l’area triestina sia in spopolamento. In dieci anni la popolazione nelle aree urbane è diminuita drasticamente; vero è che la situazione nelle città è differente rispetto a quella montana. L’esperienza di Margherita ci permette di avere un quadro generale in grado di descrivere le situazioni di fragilità. Quel che permette di riattivare le risorse, e creare Restanza tramite il rinnovamento e la crescita, è una presenza dedicata.
Serve qualcuno, anche da parte delle istituzioni, che sia presente nel territorio. Una figura, non per forza singola ma anche un gruppo, che dia una presenza continuativa, tessendo relazioni e nuovi punti di vista. Se giocata in maniera aperta, può davvero aiutare ad essere un incubatore di progetti e possibilità da svilupparsi poi nel sistema. Un sistema che magari non dà risposte nell’immediato alle esigenze, ma che dà fiducia e che innesca nei soggetti l’idea che qualcosa si può fare.
Altrettando valide, ed essenziali, sono le parole del professor Giovanni Carrosio: membro del gruppo di supporto alla Strategia Nazionale per le Aree Interne e membro della Società Europea di Sociologia Rurale.
Giovanni porta una riflessione circa la popolazione giovane residuale: in molti comuni, più del 40% della popolazione ha più di 65 anni. Quindi, prima ancora che di Restanza, sarebbe corretto parlare di “Riabitare”. Negli ultimi 4 anni, tramite il lavoro svolto con Strategia Nazionale per le Aree Interne, sono state selezionate 72 aree in tutta Italia dove le comunità marginali non sono state indicate dai classici indicatori di natura economica, bensì in base alle capacità dei cittadini, ovvero se e come i cittadini sono in grado di accedere ai diritti di cittadinanza.
Le aree sono state mappate tramite la distanza che i cittadini devono percorrere per raggiungere il primo ospedale che abbia un punto nascita, il primo comune con offerte di scuole secondarie superiore e il primo comune con una stazione ferroviaria. Quindi la mancanza di sviluppo è stata valutata con un nuovo modello: quello dove manca la capacità di esercitare appieno i diritti di cittadinanza.
Una strategia per far restare le persone sul territorio consiste nell’investire sui servizi alle persone con una logica molto simile a quella delle micro-aree: costruire politiche rivolte ai luoghi e mappare i fabbisogni di comunità che emergono in questi luoghi dando risposte territorializzate (cosa ancora molto difficile). Alcuni esempi già realizzati sono gli asili nel bosco, l’ostetrica di comunità e simili.
Dunque, cosa serve per fare Restanza?
Per fare Restanza dev’esserci un livello essenziale di cittadinanza, quindi di servizi minimi garantiti indipendentemente da dove si vive (che ci ricorda essere un po’ quello che afferma l’articolo 3 della nostra Costituzione, dove tutti devono avere diritti sostanziali indipendentemente dal reddito o etnia, ma a cui aggiungiamo che questo avvenga anche indipendentemente dal luogo in cui abiti, poiché questo influisce sull’accessibilità).
In ultimo un’importante riflessione: dobbiamo fare qualcosa perché le persone restino lì o dobbiamo fare qualcosa perché le persone decidano in piena libertà e autonomia dove andare a vivere?
Un tipo di Restanza potrebbe essere quella di vedere questi territori come spazi liberi quindi come laboratori di nuovi modelli di sviluppo.
Blog IT.A.CÀ
Giovanni Nolè
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