Cari amici viaggiatori e amiche viaggiatrici, siamo felici di condividere con voi un’intervista diversa dal solito, infatti il protagonista di oggi è un importante scrittore, ma soprattutto amante del nostro pianeta, stiamo parlando di Paolo Cognetti che ama vivere e scrivere nel suo piccolo rifugio in montagna, nei pressi di Estoul in Val d’Aosta. Oltre all’intervista del blog, potrete seguirci con Paolo durante il nostro webinar di apertura per domani, martedì 27 aprile h17:00, in cui parleremo insieme a tanti ospiti del tema del festival di questa 13a edizione: “Diritto di Respirare”.
Paolo Cognetti è uno scrittore italiano nato a Milano nel 1978. Al contrario delle aspettative, Paolo nel 1999 si diploma alla Civica Scuola di Cinema di Milano alimentando così un’altra delle 7 arti a cui è appassionato, la cinematografia. Da quel momento inizia una carriera come documentarista, che proseguirà per circa un decennio. Oggi però è la sua scrittura a renderlo noto, soprattutto dopo aver ricevuto il Premio Strega nel 2017 per il romanzo “Le otto montagne“, venduto in oltre 30 paesi.
Lo ricordiamo anche per “Sofia si veste sempre di nero”, “Manuale per ragazze di successo”, e “La qualità dell’aria – storie di questo tempo”. Paolo ci racconta attraverso questa intervista qualche dettaglio in più sulla sua storia: scopriamo insieme perchè ha scelto di vivere in montagna, come nascono le idee per i suoi libri e cosa significa per lui Diritto di Respirare.
Sin dal tuo esordio hai ricevuto molti riconoscimenti fino ad arrivare all’ambito Premio Strega nel 2017 con il tuo libro “Le otto montagne”, in cui traspare chiaramente il legame profondo che senti con la montagna e i suoi paesaggi. Da dove nasce l’idea creativa di questo libro? Dopo la vita frenetica di Milano, tua città natale, e New York, dove hai trascorso alcuni anni, hai sentito il bisogno di “staccare” o si nasconde un motivo in più…
A volte mi sento di sgomberare il campo da qualche luogo comune. Io non ho mai fatto vita frenetica, né a Milano né a New York. A New York passavo le mie giornate camminando per la città, spesso per i suoi margini, e poi a casa a scrivere, a letto presto e in piedi presto la mattina… Credo che la frenesia stia nella vita che ti scegli (o che sei costretto a fare), non nei luoghi.
Sono andato in montagna fondamentalmente perché in quel periodo ero infelice, ho scoperto che la montagna mi mancava tanto, e ho pensato che forse lassù avrei potuto ricominciare. È stato anche un desiderio d’avventura, di fare un esperimento sulla mia vita. Da questo, dai ricordi d’infanzia, dalle persone che ho incontrato in montagna è nato il desiderio di scrivere quel romanzo.
Un po’ per scherzo ti definisci “mezzo montanaro” perché effettivamente ormai la tua vita è divisa tra queste due realtà molto diverse, la città e la montagna. Quali sono per te gli aspetti migliori di entrambi i mondi? Cosa ti manca quando sei a Milano e cosa quando sei a Estoul?
A Milano mi mancano i grandi spazi, la vicinanza ai boschi, ai torrenti, alle acque, e tutto il tempo che in montagna passo all’aperto. Sto molto poco in casa quando sono su. Mi manca anche il lavoro manuale, maneggiare attrezzi, tagliare legna, accendere il fuoco. Tutto questo è una parte importante nella mia vita perché io non sono solo cervello e il lavoro intellettuale mi soddisfa solo a metà (in città, per compensare a questa mancanza, cucino). A Estoul mi mancano soprattutto le sere della città: uscire, andare al bar, vedere i miei amici. La sera, quando viene buio, su in baita per me è il momento più difficile. Mi manca la festa dello stare insieme, che in città comincia proprio a quell’ora.
Prima di appassionarti alla scrittura, la tua formazione ti aveva portato verso una carriera legata al cinema o meglio al campo dei documentari. Hai mai pensato di combinare questi due mezzi, la scrittura e il documentario, per raccontare le tue storie?
Non era prima, in realtà. Voglio fare lo scrittore da quando avevo 17-18 anni. Ma dovendo scegliere un percorso di studi ho preferito studiare cinema che, non so, lettere all’università. Mi sembrava un modo di imparare a raccontare storie, ed è stato effettivamente così.
Ho fatto documentari per qualche anno e me ne sono allontanato quando, con la crisi economica, trovare qualche soldo per realizzarne è diventato sempre più difficile e frustrante. Proprio allora sono andato in montagna.
Poi, diciamo così, la mia scrittura ha preso il volo, è andata bene, è diventata il mio lavoro e verso i 40 anni ho realizzato quel sogno che avevo a 17. Ora vivo dei miei libri, ma sono rimasto molto legato al linguaggio e allo sguardo del documentario e chissà che non ne faccia ancora qualcuno.
Anche tu ti occupi di un festival, “Il richiamo della foresta”, che conta già ben 3 edizioni. Raccontaci: come è nato questo progetto e come vi siete reinventati per gli effetti della pandemia?
Non ci siamo reinventati: ci siamo fermati. Io non sono dell’idea che si debba andare avanti sempre e comunque, abbiamo preso la pandemia come un’occasione per fermarsi e riflettere. Anche perché l’ultima edizione del festival, nel 2019, aveva raggiunto un po’ i limiti del suo sviluppo: un festival di arte, musica, libri, teatro, in mezzo a un bosco a 1900 metri d’altezza, usato per 3-4 giorni come campeggio libero. Questa era l’idea ed è stato bellissimo, per tre anni, veder passare di lì Erri De Luca e Folco Terzani, Hervé Barmasse e Nives Meroi, Vasco Brondi e tanti altri. Vedere centinaia di tendine colorate in mezzo al bosco di larici che di solito vedo, silenzioso, dalla finestra della mia baita.
Portare in montagna un’idea di socialità e cultura – un’idea politica direi – all’inizio era un miraggio e poi è stato un successo, che però rischiava di diventare troppo invadente e non più sostenibile. L’abbiamo fatto per tre anni ed è stato bellissimo, in futuro faremo qualcos’altro!
Il tema di quest’anno per il nostro IT.A.CÀ festival è “Diritto di Respirare”. Sarebbe interessante conoscere il tuo punto di vista sull’importanza del respiro, soprattutto considerando il tuo rapporto personale con la montagna.
Il diritto di respirare fa parte dei diritti fondamentali, quelli di cui non possiamo proprio privarci, se no siamo servi, oppressi, prigionieri. Mi ha molto colpito, durante la pandemia, che non si sia levata un’insurrezione nei confronti del divieto di uscire di casa. Per me vivere all’aria aperta è un diritto fondamentale dell’essere umano, ma si vede che tanta gente è già abituata a vivere al chiuso, e non è sembrato così grave. In montagna il rapporto tra fuori e dentro è molto diverso, io in baita vivo in una stanza di 20 metri quadri, e fuori ho chilometri di boschi, prati, vallate, nevai a perdita d’occhio. Se uno mi dice: “adesso non puoi più uscire di casa”, io semplicemente adotto la disobbedienza civile di Thoreau, ed esco lo stesso.
Ringraziamo Paolo Cognetti per questa bella intervista attraverso cui si è raccontato ai nostri lettori, apprezziamo tantissimo il messaggio che propaga tramite le storie narrate nei suoi libri: il rapporto con la natura e quindi con l’esistenza stessa!
Attendiamo l’uscita del suo prossimo romanzo, nel frattempo vi auguriamo come sempre un buon viaggio e vi diamo appuntamento a domani alle h17.00 in diretta sul nostro profilo FB per ascoltare le parole di Paolo 🙂
Blog IT.A.CÀ
Samantha Costa
Tirocinio Comunicazione
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