Cari amici viaggiatori e amiche viaggiatrici, mi affaccio alla finestra e vedo la mia città, Venezia, come non l’ho mai vista prima. I suoni sono quelli di una volta, le campane, gli starnazzi dei gabbiani, un lieve vociferare dei residenti, in coda al supermercato. Una città che vive di turismo, ma che un sostrato di autenticità scopre di averlo; una Venezia “local” che nessuno di noi conosceva davvero.
Città spettrali, piazze vuote, strade silenziose, parchi che vengono via via chiusi. Queste sono le immagini che ci riportano i media, e solo attraverso i media possiamo prenderne visione. Un mondo sospeso, una realtà inedita con cui dover fare i conti. Pensavamo di poterlo controllare questo mondo, i suoi meccanismi ed equilibri interni. Non avevamo mai fatto i conti con la sua precarietà, con la sua vulnerabilità e fragilità. Italia “zona protetta”, da cui non si può più né entrare né uscire, né ci si può muovere al suo interno. Ci troviamo di fronte a un’emergenza umanitaria alla quale non eravamo preparati. L’unico mezzo che abbiamo è tentare di limitare i contagi quanto più possibile. E l’unico modo per limitare i contagi è stare a casa. L’isolamento. Ci pesa stare a casa, ci sentiamo in gabbia; il tempo scorre lento.
L’avevamo dato per scontato il nostro diritto alla mobilità. Senza pensare che questo diritto non era per tutti. Da una parte c’eravamo noi, studenti internazionali, uomini d’affari, lavoratori, turisti. Dall’altra c’erano loro, migranti, richiedenti asilo, vittime di diaspora, rifugiati, costretti a migrare per fuggire dalla povertà, da guerre e persecuzioni.
Ci è costato caro il diritto alla mobilità. Ci basta pensare all’Europa prima della caduta del muro di Berlino. Solo dopo il 1989, le frontiere precedentemente chiuse dalla “cortina di ferro” hanno gradualmente reso possibile una sempre maggiore mobilità dei popoli; una sempre maggiore libertà. E ci eravamo abituati a questa libertà. In effetti fino a ieri pensavamo che la nostra mobilità potesse essere illimitata; pensavamo fosse negata “soltanto” ai profughi, ai rifugiati, a chi è nato dalla parte sbagliata del mondo. E improvvisamente ci ritroviamo noi nella parte sbagliata. Da un momento all’altro il blackout, tutto si ferma.
Cala la notte sul nostro paese. L’Italia, polo attrattivo turistico per eccellenza, si ritrova improvvisamente sola, sola con i suoi abitanti, disarmata.
Ci rimettiamo tutti, nessuno escluso; è una crisi che coinvolge e condiziona l’intera popolazione, e la stragrande maggioranza dei settori economici. Ma è senza dubbio il turismo uno dei settori più danneggiati. Agenzie di viaggio e tour operator costretti ad annullare viaggi; strutture ricettive vuote, tenute a chiudere; musei chiusi, eventi annullati.
Il servizio “Viaggiare sicuri” dell’Unità di Crisi della Farnesina parla chiaro: “non sono consentiti viaggi all’estero o in Italia per turismo”. Possiamo in questo scenario pensare a nuovi modi di fare turismo, o di viaggiare?
Numerosi sono i musei nazionali e internazionali che hanno messo a disposizione tour virtuali e collezioni online, visitabili da casa; svariati i documentari di viaggio che vengono per l’occasione proposti, disponibili su Netflix e altre piattaforme. Ma c’è dell’altro, un’idea che viene da lontano, dall’antica mitologia greca: Itaca è la meta del viaggiatore che, come Ulisse, partendo da casa, ritorna a casa, con un bagaglio culturale e di esperienze più ricco rispetto a quello con cui era partito. Ma abbiamo davvero sempre tempo e modo di trovare un posto, nelle nostre menti e nelle nostre dimore, per tutto ciò che ci portiamo dietro da ogni viaggio?
Nella “trincea” a cui siamo costretti ai tempi del coronavirus, possiamo cominciare a mettere ordine tra i numerosi bagagli che ci siamo portati a casa dai nostri viaggi; ricomporre i puzzle delle nostre vacanze più entusiasmanti. Avete presente quei classici “propositi per l’anno nuovo”, ma che per qualche ragione rimangono solo su carta? Ebbene, è questo il momento per fare un’inversione di marcia: facciamo pulizia nei nostri desktop e riordiniamo le foto dei viaggi; creiamo cartelle ad hoc per le foto che vogliamo stampare; realizziamo collage con le foto già stampate e decoriamo le nostre stanze.
Diamoci alla scrittura; scriviamo diari di viaggio retrospettivi, in cui ricordiamo luoghi in cui vorremmo tornare e che potremmo consigliare ai nostri cari; i più creativi e tecnologici aprano blog per dispensare consigli ai viaggiatori, o in cui riflettere apertamente sui viaggi già effettuati; creiamo video-racconti dei nostri viaggi, e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, raccogliamo le “cianfrusaglie”, ricomponiamo i nostri bagagli; troppo spesso li abbiamo disfatti frettolosamente. Facciamo tutto ciò che in condizioni ordinarie non ci concediamo: rielaboriamo, ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, e condividiamolo con chi più ci sta a cuore.
Kapuscinki ci insegna che “un viaggio non comincia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”. È un virus benigno il viaggio, un virus che non si ferma di fronte all’avanzata di un virus maligno, che sembra annientarci. È una lotta tra titani, ma è il viaggio l’unico virus davvero invincibile. Ci rimane dentro; nessun vaccino che tenga, nessuna cura sperimentale.
Stiamo vivendo un’epoca nuova, a cui non siamo abituati. Un’epoca che per alcuni versi ricorda quella che vivevano la maggior parte delle nostre nonne, le casalinghe di cinquant’anni fa. Non c’è spazio, oggi come allora, per le corse contro il tempo, per la frenesia, per un’agenda da capogiro.
Se per un po’ dovremo evitare ogni spostamento nello spazio, non dimentichiamoci per questo di tutti i chilometri già percorsi, e dei frutti che abbiamo raccolto lungo il cammino; è questo il momento di prendercene cura.
#iorestoacasa
Blog IT.A.CÀ
Irene Pinto
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