Oggi per il nostro appuntamento con il Blog IT.A.CÀ siamo in compagnia di Massimo Venturini che ci racconta della vita del grande Montaigne.
Massimo fa parte dell’associazione bolognese ind.a.co Collettivo Autori Indipendenti. Un progetto di intermediazione che connette quanti intendono partecipare a un laboratorio culturale aperto: non un salotto d’élite, ma un’agorà aperta a tutti animata tanto da professionisti quanto da appassionati; non un’agenzia letteraria, ma una palestra e una fucina di idee per scrittori, professionisti ed emergenti, lettori e amanti della parola.
Che cosa occorre per viaggiare?
Se si prende la domanda sul serio, e la si scompone fino ai suoi minimi termini, si troverà che il viaggio non è altro che un mutamento di condizione, sia essa spaziale, temporale, o entrambe: occorre quindi che qualcosa cambi. Ma il desiderio che spinge a viaggiare richiede che il cambiamento non sia banale, bensì dotato di un certo valore: il viaggio, nella sua definizione minima completa, è dunque un mutamento significativo di condizione, ottenibile grazie a un’arbitraria variazione della condizione spaziale e/o temporale del viaggiatore.
Non occorre, per viaggiare, che entrambe queste condizioni mutino: la maggior parte di ciò che viene alla mente quando ci si riferisce al viaggio, di fatto, è un’arbitraria variazione della condizione spaziale, a condizione temporale invariata (salvo che per intervalli insignificanti: un mese, un anno, etc.). Ma può capitare anche il contrario: a me è capitato di inoltrarmi in un breve ma intenso viaggio nella Bologna del 1580, standomene seduto dentro una casa che verosimilmente ha visto passare sotto la sua strada colui che ha permesso questa mia esperienza, Michel de Montaigne.
*Michel Eyquem, signore di Montaigne
Primo erede di un titolo nobiliare acquistato con la rendita dei commerci della sua famiglia, amante delle belle lettere, inesausto indagatore delle proprietà e curiosità (specialmente le seconde) della natura umana, francese di madrelingua latina, e, solo dopo la morte, umanista e filosofo, Montaigne ha deciso di prendersi una lunga pausa dalla sua unica professione evidente (l’amministrazione delle sue terre e del suo castello, sito nel bel mezzo di tutti gli sconvolgimenti della guerra di religione francese) per alimentare la sua prediletta professione nascosta: la conoscenza di sé, ottenuta per mezzo della conoscenza di tutto ciò che è altro da sé.
Ad impreziosire il mio viaggio è servito solo sapere che Montaigne era molto pratico dei viaggi in cui cambiano entrambe le condizioni, al punto da essersi sentito spesso un uomo vissuto in un’epoca che poco gli si addiceva, al confronto dell’epoca di tutti quegli autori di storia, filosofia e poesia greci e latini con cui abbelliva la biblioteca del suo «retrobottega» nella torre del castello, e di cui ha disseminato i suoi Saggi. Così adesso lui, amante della storia quando essa era ancora costituita da un insieme di storie, stava permettendo a me, tramite il suo viaggio spaziale, un viaggio puramente temporale, basato sulla lettura di un breve passo del suo Journal de Voyage (tradotto un po’ riduttivamente come Viaggio in Italia), che è per l’appunto un insieme di storie.
La tappa di Bologna ha rappresentato, per Montaigne e il suo nutrito seguito (all’epoca si viaggiava con la maggior parte delle proprie finanze contenute in grossi forzieri, e per timore dei ladri in casa ci si esponeva ai briganti di strada), una tappa transitoria sulla via per Bagni di Lucca (dove Montaigne, sofferente del «mal della pietra», avrebbe sperimentato le cure di uno dei più noti bagni termali di epoca romana) e soprattutto per Roma, lo scrigno della civiltà e dei costumi che sentiva di condividere: la visita a Roma risulterà un disastro, un’autentica dimostrazione pratica di come i mutamenti spaziali non vadano di pari passo con i mutamenti temporali (Montaigne si sentirà stranito dal visitare un posto i cui spazi gli appaiono così familiari e i cui abitanti così corrotti e spiritualmente impoveriti).
Bologna, invece, gli ha fatto un bell’effetto, tanto da rimanerci per quattro giorni, un tempo piuttosto lungo considerata la durata media delle sue tappe.
Ciò che mi ha affascinato è la longevità di certe caratteristiche della città di Bologna, impresse nelle parole rianimate dall’immaginazione, cosa che le semplici date non riescono a fare: Montaigne, che giunge in una città profondamente rimodernata di recente da interventi urbanistici voluti dallo Stato Pontificio per il tramite del cardinal Borromeo, appunta con piacere che la città abbonda di grandi portici, «che costituiscono una grande comodità per poter passeggiare, con qualunque tempo, al coperto e senza fango», e anche oggi è risaputo che i bolognesi non sanno che farsene dell’ombrello; chiama la Torre della Garisenda antica e sostiene che dia l’impressione di stare per crollare, esattamente come facciamo anche oggi tutti noi; contempla il «gran numero di magnifici palazzi» e trova l’Archiginnasio, all’epoca sede dell’università («la scuola di scienze»), «il più bell’edificio che abbia mai visto adibito a quest’uso», impressione ancora inalterata negli odierni turisti del teatro anatomico e della biblioteca; apprezza la recente Fontana del Nettuno, ma sembra non essere venuto a conoscenza della pietra della vergogna.
Accanto agli elementi architettonici, Montaigne rimanda alcuni leggerissimi elementi di affinità tra la popolazione dei due tempi differenti: un’analogia con Padova legata alle condizioni di vita (le due città sono da quasi ottocento anni accomunate da una forte presenza dell’università nel quadro dell’organizzazione urbana), e una nutrita presenza di «spagnoli», che al suo tempo erano i sostenitori del papato contro i «francesi» indipendentisti, mentre ora il termine ha acquisito il suo significato letterale. Singolarmente, non accenna minimamente al cibo che ha mangiato in città, pur avendo abbondato in dovizia di particolari in altre situazioni.
Ho apprezzato moltissimo questo mio viaggio perché in precedenza avevo imparato a conoscere il mio compagno, la sua volontà di «strofinare il proprio cervello contro quello degli altri» per ottenere un mutuo scambio di valore, la sua passione per l’arte del «conferire», la sua immensa desolazione quando, rientrato nel «retrobottega» e ormai anziano (54 anni, quant’è vero che l’età è uno stato mentale), lamentava di aver perduto il più immenso tesoro di cui l’uomo può disporre, un amico.
Così, averlo incontrato a Bologna anni prima (i suoi) in questo modo mi ha dato la dolce impressione di una visita intenzionale.
La mia ingenua compiacenza nell’aver condiviso i suoi valori (sempre nel rispetto della «forma tutta sua» che la coscienza di ogni individuo presenta, e della sua radicale incomunicabilità) e nell’avere esaudito il suo ultimo desiderio di poter trovare un amico (seppure in un punto della linea del tempo a lui indifferente) rappresenta per me un buon esempio di turismo responsabile.
Blog IT.A.CÀ
Massimo Venturini
ind.A.co. Collettivo Autori Indipendenti
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