La costa del Kenya è tra le mete esotiche più frequentate dagli italiani e, come Santo Domingo, isole tailandesi e altre “splendidi cornici”, è una destinazione in cui molti italiani vi trascorrono molto più tempo che per una vacanza ordinaria, diventandone semi-residenti.
Alcuni definiscono la semi-residenzialità un eterno viaggio; in realtà non si è mai in nessun luogo: non sei qui, non sei lì. Ciò nonostante a molti piace come situazione, tanto che chi se lo può permettere, chi si ritrova sufficientemente solo o è in fuga da qualcosa, può decidere per il gran salto, grande a metà…
A coloro invece, che con i semi-residenti ci devono interagire, piace assai meno. Accade spesso che i semi-residenti non siano benvoluti, il livello di interazione con la popolazione locale tende a fermarsi a un livello superficiale, così come l’integrazione, annichilita da una socialità limitata ai confini della “cerchia” della comunità italiana del luogo. Spesso a causa della drammatica ignoranza linguistica, il contatto con i locali e altre nazionalità, si limita al minimo indispensabile. Ma non è solo questione di lingua; i pregiudizi sono forti e i luoghi comuni strutturali: usi e costumi ritenuti ancora selvaggi, modi di vivere considerati arretrati, gli stessi atteggiamenti – solo perchè diversi – spesso etichettati di approssimazione, pigrizia, incuria, scarsa affidabilità.
Rispetto alla povertà endemica di molti dei contesti che si estendono fuori dalle mura del resort o del centro residenziale, l’atteggiamento tende a essere d’indifferenza, paternalismo nella migliore delle ipotesi. È faticoso compiere sforzi per capire ragioni di realtà così diverse dalla nostra, più facile far comprare al boy un sacco di riso e distribuirlo nei dintorni per le feste comandate, o sbarcare in una scuola, una qualsiasi, la prima che capita, a inizio anno con un bel scatolone di biro e quaderni... Elemosina, pietà, paternalismo, poco altro, poco oltre. L’indotto economico per le popolazioni locali è limitato. Ci guadagnano soprattutto le società immobiliari che vendono case, resort, villette (di società che spesso non sono del paese); ci guadagna qualche importatore (spesso nostro connazionale) sugli alimenti di base dell’irrinunciabile italianità; ci guadagnano i ristoranti e le discoteche delle vicinanze (anche queste gestite da altri semi-residenti di varia nazionalità o da grandi gruppi di business nazionale e internazionale). E ci guadagna, ma molto meno, il personale locale di cui il semi-residente ha bisogno per districarsi tra i servizi del luogo in cui semi-vive e che da solo fatica a gestire: spesa al mercato, riparazioni, manutenzioni, trasporti e altro.
Per queste esigenze il semi-residente assume e licenzia personale a seconda dei suoi periodi di bisogno; il resto dell’anno, non è un suo problema come sopravvive colui e colei a cui – quando semi-risiede – si affida in toto. Assume con salari stabiliti dalla comunità locale in base a un “tu quanto gli dai?” dai rarissimi adeguamenti inflazionistici e comunque lasciato al buon cuore di chi decide. Emolumenti zero, liquidazioni mai, condizioni abitative spesso deplorevoli, anche quando il lavoratore resta presso l’abitazione semi-risieduta, magari in postazioni-alloggio per guardiani, sottoscala da topi per le domestiche… E ovviamente nessuna previdenza, se non qualche farmaco pagato perché l’assenza dal lavoro non duri troppo.
L’esercito di lavoratori che ruota intorno alla vita di queste località turistiche non gode di condizioni migliori; si tratta di Paesi con sindacalizzazione inesistente, livello pervasivo di ingiustizia sociale e sistematica prevaricazione sui più deboli. Tutto il necessaire per permettere a chi utilizza i servizi di godere di prezzi bassissimi, garantendo che la località attragga sempre più presenze; presenze da cui attingere preziosa valuta estera attraverso tasse di importazione, visti di varia durata, impieghi di suolo nazionale; tanta valuta che finisce nelle casse dei maggiorenti, politici o imprenditoriali, o nei bilanci di multinazionali dell’immobiliare, della sicurezza, della distribuzione… Solo le briciole arrivano alla moltitudine di persone in quotidiana lotta per la sopravvivenza a cui il semi-residente più o meno ignaro affida i propri averi, la propria protezione, i propri figli e tutto il ‘semi-resto’ della sua superficiale presenza.
Sulla paradisiaca costa keniota, solo nel mese scorso, si sono verificati due attacchi piuttosto cruenti nei confronti di italiani vacanzieri. È che in Africa quando le situazioni deteriorano e le tensioni esplodono, le vie di mezzo sono rare ed episodi come questi se ne sono verificati in gran numero, ma i resoconti non si avventurano mai in analisi complesse, tanto poi c’è poco da fare. Il fatto che un gruppo di soggetti porti benessere in una zona desolata e si ritrovi ricambiato con rapine, furti, brutalità, è una cosa che crea sgomento, ma non più di tanto, considerata la presunta arretratezza culturale dei locali, i loro costumi selvaggi e tutto il mondo dei pregiudizi che grava attorno a questo mondo…
Mi rendo conto: è questo un mio un ritratto sconvolgente, ma reale, di una categoria sociale imprecisa che comprende anche persone che in alcuni casi si adoperano e creano cooperazione civile; un ritratto impreciso però tracciato sulla base di quanto osservato per oltre un decennio durante i miei mandati umanitari e di cooperazione internazionale passando per luoghi come Pukhet, Samui, Cape Skirring, Saly, Bali, Assinie, Bassam, Sassandra, Malindi, Mayungu, Nosy Be e tanti altri. Luoghi in cui ho incrociato persone che hanno compiuto scelte radicali di vita, si sono spostati e corrono rischi anche gravi, tutto per vivere in un “lì” che può anche essere un qualsiasi altro posto sul globo. Come se, con tutto il loro presunto viaggiare, si fossero ritrovati senza essersi mossi di un millimetro nello sgabuzzino della loro vecchia casa. Al buio.
Redazione Blog IT.A.CÀ
Manuel Finelli
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!