Era il Luglio del 2011 quando firmai la rinuncia allo stage ufficiale del Master in Turismo Responsabile. Ne scelsi uno non ufficiale. Volevano chiudermi in un ufficio di un Tour Operator per il quale il turismo sostenibile sarebbe stato rappresentato solo dalla stagista idealista che fa le fotocopie (io), povera illusa.
Allora la stagista testarda ha deciso di verificare per conto suo se questo fantomatico turismo responsabile esistesse davvero, se, come dicevano in molti, si trattasse solo di GreenWashing o se ci fosse qualche pazzo nel mondo che lo mettesse in pratica sul serio per fini etici. Ha scelto un piccolo, minuscolo, puntino sulla mappa e ci si è diretta a spada tratta. Quel puntino era il villaggio berbero di Hassi Labiad, un’ oasi nel deserto dell’ Erg Chebbi, nel sud-est del Marocco, a 12 ore di autobus da Marrakech ed a pochi chilometri dal confine con l’Algeria.
Perché proprio quel villaggio di case fatte di fango e paglia, abitato più da dromedari che da persone? Perché ci sono due associazioni, l’Associazione Hassilabiad per l’ambiente, lo sviluppo e la cooperazione e l’Associazione dei giovani che, tra i tanti progetti di alfabetizzazione e lavoro destinati alle donne e ai bambini, indovinate un po’? Portano entrambe avanti anche interessanti progetto di turismo responsabile!
In collaborazione con associazioni spagnole e francesi, vengono infatti organizzate escursioni nel deserto, laboratori di cucina, d’henné, di musica, trekking in montagna e tanto altro, i cui proventi vengono, in parte, equamente distribuiti tra tutti i fornitori di servizi (Omar il cammelliere, Moassin il panettiere, Zhara che fa l’henné, Fathima che prepara il pane, Khadija che si occupa del banco dell’artigianato etc etc…) e, in parte, utilizzati per finanziare progetti sociali scelti dalla stessa comunità (quelli a cui ho avuto modo di partecipare sono stati utilizzati per l’acquisto di un’ambulanza e la costruzione dei bagni nella scuola).
Sono loro i protagonisti di quel tipo di turismo il cui fine è permetterci di andare oltre. Oltre un meraviglioso paesaggio per conoscere chi lo abita, oltre un bell’oggetto per scoprire chi l’ha creato, oltre una bella immagine da catalogo per ascoltare chi, in quell’immagine, ci è nato e vissuto ed è in grado di trasformarla, per noi, da carta plastificata a realtà.
Sono rimasta lì per 6 mesi, collaborando e aiutando come potevo, osservando i comportamenti delle varie tipologie di turisti, dagli odiosi conduttori di Quad e 4×4 ai camminatori in viaggio spirituale, dalle donne che praticavano, senza rendersene neanche conto, un dannoso turismo sessuale ai camperisti pieni di materiale scolastico e vestiti, da chi sceglieva l’albergo con piscina a chi, come me, dormiva in famiglia, dove l’acqua, quella da bere, non quella in cui sguazzare, si va a prendere alle 7 del mattino al pozzo. E sono giunta alla conclusione che speravo: sono tanti i viaggiatori nel mondo pronti a dormire scomodi, a mangiare con le mani, a stare per ore in groppa ad un asino e a sopportare l’inverno nel deserto senza riscaldamenti, pur di ridare un senso alla parola condividere, pur di tornare a sentire veramente.
Sentire il calore acceso dell’ospitalità in una casa che non avrebbe proprio spazio per ospitare, se non fosse che chi la abita dormirà nel cortile pur di lasciarti dormire all’interno; sentire il sapore freddo della menta nel tè fatto nella maniera tradizionale, con più passaggi di teiera; sentire un’altra mano, più abbronzata e più callosa della tua, che ti sfiora mentre si ciba dallo stesso piatto, sentire la pelle dura di un dromedario che ti trasporta elegantemente, contro sole e contro vento, verso quella piccola tenda berbera che sarà la tua casa per i prossimi giorni; sentire tutto ciò che ti verrà concesso e lasciare tutto ciò che potrai e vorrai.
E’ proprio questo, a mio avviso, lo scopo del turismo responsabile in generale e in particolare lì, in quel deserto marocchino color vaniglia: lo scambio. Apprendere tutto l’apprendibile ed insegnare tutto l’insegnabile.
Scambiarsi pezzi di vita. E la responsabilità sta in questo, nell’essere coscienti di ciò che si lascia e di ciò che si prende, materiale o immateriale che sia.
Significa portare via con noi la plastica con la stessa responsabilità con cui porteremmo con noi gli abbracci regalateci.
Significa non lasciare elemosina con la stessa delicatezza con cui non lasceremmo uno schiaffo. Significa lasciare un dono con la stessa consapevolezza con cui lasceremmo un bacio…
Redazione Blog IT.A.CÀ
Sara Petrozzi
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